Quello che non ti dico
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Se stai leggendo questa lettera è solo perché sono ancora sveglio alle 2:40 del mattino. So che domani morirò dal sonno e odierò me stesso, come mi capita sempre, ma la notte è il tempo che mi prendo per pensare e — Dio! — in questi ultimi giorni sto pensando veramente tanto.
Tra poche ore passerai da me e, com’è ogni volta che ci siamo solo io e te e nessuno a disturbarci, staremo bene e saremo felici; non esisterà nient’altro al di fuori di noi. Tutto il mondo si fermerà ad ammirare quella meraviglia che siamo insieme, perché io e te insieme siamo davvero degni di essere ammirati.
E in questa lettera non voglio parlarti dei problemi delle ultime settimane, perché ne abbiamo già parlato abbastanza. Per inciso, penso che si tratti solo di un brutto momento e che lo supereremo, proprio come abbiamo passato altri brutti momenti. E se non c’è mai stato un periodo peggiore di questo, allora questo sarà il nostro nuovo momento peggiore e sarà lo standard per quelli che verranno.
No, in questa lettera vorrei dirti le cose che non ti dico mai.
Il punto è che non te le dico mai perché… non so come dirle. Perché — lo so, suona banale, eppure è così — per descrivere alcune cose, per descrivere noi… semplicemente mi mancano le parole. Sì, a me, quello che ha sempre qualcosa da dire (anche se, dicendolo, arrossisce come il Piccolo Principe). Mi mancano delle parole che non sembrino tirate fuori da un libro di Moccia. Mi mancano delle parole che siano in grado di catturare la bellezza della tua unicità. Mi mancano le parole per descrivere quello che provano molti innamorati, ma tutti in modo diverso e ugualmente speciale.
Eppure ci proverò, perché tu lo meriti. Meriti questo mio sforzo. E sei l’unica persona che lo abbia mai meritato.
Iniziamo dalla tua risata. Non credo che tu te ne renda conto, perché non ti fermi mai ad ascoltarla, ma hai la risata più bella del mondo. Non ho mai sentito nessuno, nemmeno i bambini, ridere in modo così puro e vero. E forse è anche merito del mio naso e del mio hm-hm-hm se ridi con tanto gusto, ma che tu ne sia capace mi lascia ogni volta sbalordito e sul punto di piangere. Piangere di gioia, perché ancora oggi devo sentire un suono che sia più bello di te che ridi come un neonato.
Immagina una creatura che viva da un’eternità e che in questa eternità non abbia mai raggiunto la pace e che possa considerare conclusa e compiuta la propria esistenza solo se e quando la raggiungesse. Immagina il suo sconforto e la sua frustrazione; immagina la disperazione.
Ecco, ora immagina che all’improvviso questo essere sia in grado di compiere il proprio obiettivo, di raggiungere la serenità che tanto desiderava. Immagina che finalmente, dopo un tempo infinito, possa ritirarsi, riposarsi e ristorarsi. Pensa a quanto debba essere grande la gioia che prova e a quanto intenso il suo senso di realizzazione.
Ecco, così è come mi sento io quando ridi.
Ed è così che mi sento quando parliamo la nostra lingua, quando usiamo le parole che abbiamo inventato. Tao. Batta. Uniconno. Noppuoi. Badipo. Ebba. Catttivo. Motto. Ccimmia. Ccuta. Gnagno. Ci potrei scrivere un vocabolario, ma subito dopo averlo pubblicato dovrei aggiornarlo, perché nel frattempo ne avremmo già pensate altre decine.
Non avevo mai inventato una parola, né avevo mai pensato di farlo; ma soprattutto, mai e poi mai avrei pensato di farlo con qualcuno, per qualcuno. Noi lo facciamo per gioco, ma è una cosa potente, inventare le parole insieme. La nostra lingua è nostra, solamente nostra. Definisce quello che siamo, quello che abbiamo passato.
Chiunque può dire “cane”, ma noi diciamo gnagno. E se anche qualcuno capisse gnagno e iniziasse a usarlo, non potrebbero mai capire quello che gnagno è per noi. Non è più un cane. È il nostro cane. Se avremo un cane, lo chiameremo Gnagno.
Ogni parola porta con sé la propria storia: uniconno mi ricorda la giornata passata al The Village, i tuoi occhi di bimba felice nel momento in cui hai capito dove ti avevo portato e il cuore che mi si riempiva della tua gioia; ebba e motto mi ricordano il pomeriggio passato al Cineland a vedere Jurassic World, il modo in cui ti coccolavo mentre guardavamo il film, i baci e le carezze che ci distraevano dalla trama. Delle altre non saprei neanche dire da dove arrivino, perché sono diventate così importanti da non aver neanche più bisogno di una storia per continuare a esistere: semplicemente sono.
Proprio come noi.
Ed è così che mi fanno sentire le piccole cose: quella cosa buffa che fai con gli occhi e le pernacchie che non ti riescono e la tua pigrizia quando non ti va di alzarti dal letto. Tutte le cose che ti rendono te. E sì, esisteranno migliaia di ragazze pigre che non sanno fare le pernacchie. Un po’ meno ragazze capaci di fare quella cosa con gli occhi in un modo così divertente, ma non è questo il punto. Ne esiste solo una che fa tutto questo nel modo che amo alla follia.
E così mi sento quando mi spremi i brufoli e non ti schifi, ma anzi ti diverti. È una cosa che la maggior parte delle persone fa dopo anni di convivenza, eppure tu lo hai fatto dopo pochi mesi che stavamo insieme, perché ti veniva naturale e ti sentivi di farlo. E anche quando urlo di dolore e vorrei prenderti a schiaffi e ti chiedo di fermarti e non lo fai e mi tieni fermo… ecco, sappi che proprio in quel momento io sto pensando a quanto diavolo ti amo. Oppure a come occultare il tuo cadavere. Dipende dal brufolo che stai schiacciando.
Ed è la felicità che provo quando ti vedo mangiare con gusto, anche se a volte ti prendo in giro e ti vergogni, ma tanto poi mangi ugualmente come una scrofa (non so perché, ma la parola “scrofa” mi fa morire dalle risate). Mi diverte e mi rallegra, perché se mangi stai bene e non hai paura di mostrarmi che hai fame perché non temi che possa giudicarti. Ciò non toglie che tu a volte faccia veramente schifo, però. Cioè, davvero. Regolate. ❤
E quando facciamo l’amore… la nostra ultima conquista. Già ti ho raccontato quanto bello e sorprendente sia stato diventare una sola cosa con te, e godere insieme a te. Già sai le sensazioni che provo, perché sono le stesse che provi tu, dunque non le ripeterò. Sappi solo che non avevo idea che mi sarebbe piaciuto così tanto. Non avevo idea che saresti diventata la mia droga.
Ma del resto, lo eri già da tempo.
Vorrei darti questa lettera il 16, oppure il giorno del tuo compleanno, ancora non lo so. Ma tanto già so che, con la mia impazienza, finirò per dartela domani. Anzi, oggi, considerando che sono le 3:30.
Vado a dormire, ché domani ci aspetta il tema sull’Isis.
Buonanotte, ccimmia.
Ti amo.
— Il tuo Uniconno