Fissi.
Fissi sono gli occhi.
Fissi sulla donna.
Fisso è il pulviscolo illuminato da quegli ultimi raggi di sole che cadono sui capelli rossi, che illuminano il viso, che schiariscono la stanza.
Fissa, immobile, dritta è la schiena. E bianca, e liscia, e perfetta.
Solo le mani si muovono, e le braccia e i polsi e le dita su quei tasti bianchi di quel pianoforte nero.
E l’aria. L’aria si muove. Le mani di lei accarezzano tasti che mettono in moto martelletti che percuotono corde che creano note che formano musica che muove l’aria.
E l’aria, così umida di musica, scorre nei polmoni che ne traggono nutrimento e muovono le mani; e così da capo.
Di tanto in tanto si fermano le mani; non perché la forza sia venuta meno, ma perché è necessario e indispensabile che si fermino. Perché così obbedisce il musicista. Perché così scrive il compositore. Perché così vuole la musica. Quando accade, ella resta sospesa — perché così vuole restare — e sospende il fiato di chi ascolta. Poi una nota s’abbatte con violenza sull’etere, e la musica riprende la sua strada.
E accade, quando il musicista obbedisce perché il compositore lo scrive perché la musica lo vuole, che tutto termini e trovi la sua fine.
Allora le ultime note fuggono inseguite dal silenzio, o escono in punta di piedi, lasciando a chi resta il tempo di soffrirne la dipartita.
Questo resta a chi resta: la nostalgia di un’ultima nota, la brama di una nuova melodia.